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L'UNITA'
23 gennaio 2006
Antimafia ad personam
di Gian Carlo Caselli

La coerenza, ha pontificato il presidente Berlusconi a Matrix, è un pregio e un dovere. Se lo dice il «capo», per i seguaci diventa istintivo adeguarsi. Si spiega così, forse, come la maggioranza di centrodestra (che per tutta la legislatura ha votato impassibile, con diligente disciplina, fior di «leggi ad personam», una peggio dell’altra) alla fine abbia approvato anche una relazione «ad personam». Per coerenza.

Intendo riferirmi alla relazione della Commissione parlamentare antimafia della quale alcuni quotidiani han dato notizia in questi giorni, posto che fra i suoi obiettivi sembra esservi anche quello di portare acqua - senza preoccuparsi troppo della verità - al mulino di determinate persone. Fra queste figura il senatore Giulio Andreotti: egli occupa una posizione centralissima nella relazione, che gli regala un diluvio di pagine (400 circa) nel vano tentativo di sbianchettare le ombre che lo avvolgono. E qui la «coerenza» tocca vertici sublimi. Perché da sempre il Presidente dell'Antimafia, senatore Roberto Centaro, di Forza Italia, ha manifestato in proposito un'unica immutabile convinzione: di «mafiosità» di Andreotti guai anche solo a parlarne.

Anatema a chi osa! E difatti, quando la Corte d'appello di Palermo stabilì che il senatore Andreotti aveva «commesso» il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra fino al 1980 (affermazione di responsabilità cui non seguì la condanna sol perché il delitto si era prescritto da pochi mesi), il presidente Centaro se ne uscì con la perentoria affermazione che: «Le sentenze dei processi palermitani a Giulio Andreotti hanno malamente sbugiardato le accuse di mafiosità». Stupefacente! Al punto che i giudici di Palermo dovettero replicare con una dichiarazione all'Ansa: «Chi ha scritto il brano ora citato non ha letto le motivazioni della sentenza, altrimenti si sarebbe accorto che essa si è data carico di dimostrare puntualmente... le accuse di mafiosità e le connivenze mafiose tra Cosa nostra, fino alla primavera del 1980, e l'imputato».

Dunque, che razza di coerenza potrebbe mai esservi, se ora - nella relazione dell'Antimafia approvata dalla maggioranza - si cambiasse idea. Magari prendendo atto che se la sentenza della Corte d'appello è stata - com'è stata - definitivamente confermata in Cassazione, questa conferma lascia ben poco spazio a chi voglia baloccarsi con teoremi sulla «parziale volontà di recupero delle tesi accusatorie onde evitare la loro disfatta completa», o sul «globale dubbio strutturale» (sic!) in ordine alle «metodologie usate per assumere i contributi dei collaboranti» e valutarne l'attendibilità. Non dico che si debbano prendere alla lettera gli antichi brocardi secondo cui la sentenza «facit de albo nigrum», ovvero «aequat quadrata rotundis».

E però ci vuole una bella «coerenza» (appunto) per restare inossidabilmente ancorati al giudizio a suo tempo formulato «a prescindere», anche di fronte ai fatti che il processo ha accertato. Fatti che non si possono ignorare. Fatti che parlano di amichevoli relazioni e di incontri con boss mafiosi, di favori chiesti ed offerti, di discussioni su fatti gravissimi (come l'assassinio del Presidente Mattarella), così da concretare «una vera e propria partecipazione all'associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo» e fino al 1980.

Per altro, limitando l'analisi al «dovere di coerenza» capiremmo poco. Per fare un passo avanti, e al tempo stesso acquisire robusti anticorpi per inoltrarsi senza troppi danni in un'eventuale lettura integrale della relazione di maggioranza dell'Antimafia, cercando di risolvere il mistero doloroso di una Commissione che di fatto ha stravolto i suoi naturali obiettivi (oggetto delle sue attenzioni, infatti, spesso è l'antimafia piuttosto che la mafia...), consiglio il libro di Livio Pepino Andreotti, la mafia, i processi (EGA Editore, Torino 2005). È un libro basato sull'esame degli atti (testualmente riprodotti nelle parti essenziali), molto bello e profondo. Nel quale si dimostra che «la verità e la politica stanno sempre più imboccando strade diverse e opposte». E che assumere certe posizioni in ordine alle vicende giudiziarie del senatore Andreotti significa «assolvere un sistema di governo, un modo di fare politica: non solo e non tanto per il passato, quanto per il presente e per il futuro. Significa abbattere il discrimine fra morale e immorale e tra legale e illegale».

Significa «ricondurre la mafia a una normale forma di criminalità... con la quale convivere». Livio Pepino si riferisce a coloro ( e sono ancora tantissimi) che occultano la verità continuando a presentare come «assoluzione» una «prescrizione» che contiene nette ed univoche affermazioni di responsabilità. Ma tutti, anche la maggioranza dell'Antimafia, dovrebbero riflettere sulle sue parole. Senza vincoli di «coerenza».



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CORRIERE DELLA SERA
25 gennaio 2006
Andreotti, l’Antimafia e gli attacchi di Caselli
IL PROCESSO SENZA FINE
di PAOLO FRANCHI

Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica a Palermo fino al 1999 e adesso procuratore generale a Torino, un magistrato che ha dato un contributo importante alla lotta contro il terrorismo prima, contro la mafia poi, e che alcune voci (cui crediamo poco) vogliono prossimo candidato al Parlamento per il centrosinistra, contesta vigorosamente, sull’Unità , le quasi 400 (!) pagine che la relazione della commissione Antimafia dedica a Giulio Andreotti. Perché si tratta, dice Caselli, di un tentativo di «sbianchettare» le lunghe ombre di mafiosità che avvolgerebbero il senatore. L’Antimafia (e in primis il suo presidente, il senatore di Forza Italia Roberto Centaro) sostengono infatti, a parere di Caselli, il falso. Perché i giudici di Palermo, nella sentenza d’appello, non hanno affatto smontato tutte le accuse, anzi. Anche il più succinto dei riepiloghi porta a riconoscere che, nel merito, il dottor Caselli non ha davvero tutti i torti. Nel ’99, i giudici palermitani mandano assolto Giulio Andreotti (anche se ricorrendo al secondo comma dell’articolo 530, una moderna variante della vecchia insufficienza di prove) da tutte le imputazioni: sia da quella di associazione a delinquere «semplice», riferita a fatti antecedenti il 1980, sia da quella di associazione a delinquere di stampo mafioso, riferita agli anni successivi. La sentenza d’appello, nel 2003, conferma la seconda assoluzione, ma riforma la prima: i rapporti, i contatti e gli incontri di Andreotti con i mafiosi «fino alla primavera del 1980», ci sono stati, e la motivazione ne parlerà con dovizia di particolari anche a proposito di fatti gravissimi, come l’assassinio di Piersanti Mattarella, ma i reati sono estinti per prescrizione. Di lì a poco la Cassazione respingerà tanto il ricorso di Andreotti quanto quello della procura, confermando la legittimità della sentenza.
Punto e basta, verrebbe da dire. Ma non è così. Quando una sorta di vivente incarnazione di una faccia certo non secondaria della Prima Repubblica e del potere democristiano viene accusato di aver fatto parte della cupola mafiosa, di aver baciato Totò Riina e, per sovrammercato, pure di essere stato «punciuto», e queste accuse vengono giù come un castello di carte, per quante ombre inquietanti possano restargli incollate addosso, un risultato, politicamente parlando, c’è ed è evidente; e non basta a modificarlo il fatto che i giudici dell’appello abbiano trovato convincenti le parole dei medesimi pentiti che non avevano convinto affatto, invece, i loro colleghi nel processo di primo grado. E anche l’ultimo (per ora) atto di questa vicenda, che sembra destinata a non finire mai, ci rimanda a seri interrogativi sui rapporti che intercorrono tra le sentenze e la politica, certo, ma pure tra le sentenze e una storia che non si lascia riscrivere nelle aule dei tribunali.
Sembra riprendere quota, anche nella relazione dell’Antimafia, la tesi secondo la quale, non solo in Sicilia, ma in Sicilia più che altrove, solo dei moralisti ipocriti e dei giustizialisti interessati possono rivendicare che la politica stia lontana dalle zone più grigie, chiamiamole eufemisticamente così, della società. Si può anche sostenerla, una simile tesi, non cercare di suffragarla con quello che i giudici non dicono. Anche questo potrebbe essere un modo per fare un passo avanti, e diventare un po’ più simili a un Paese in cui i politici parlano nelle assemblee elettive e (poco) in televisione, i giornalisti e gli intellettuali scrivono sui giornali, e i magistrati si esprimono attraverso le sentenze.


INES TABUSSO